Nel suo testo del 2002 Capitale & Linguaggio afferma che la crisi è il momento in cui la memoria storica, il ricordo delle crisi del passato, riemerge con forza. Che ruolo possono avere oggi le immagini della memoria nell’analisi economica della crisi attuale?
Christian Marazzi: «Ogni crisi va pensata anche come un dispositivo di disvelamento, per certi versi una tecnologia della verità, che permette di rivelare ciò che è venuto accumulandosi nella fase precedente, le contraddizioni che accompagnano il processo di sviluppo degli eventi. Da questo punto di vista essa è anche un momento in cui la memoria si impone sull’oblio, perché nella fase di crescita dominano la dimenticanza, la spensieratezza e l’irresponsabilità, mentre la memoria storica diventa una caratteristica dei momenti di crisi.
Le crisi sono sempre -un po’ nietzscheanamente- l’eterno ritorno dell’uguale e del differente. L’uguale perché rappresentano sempre un momento di deflagrazione, di immiserimento, di impoverimento e di smarrimento. Quindi in quanto tale si ripetono nella storia, ma nello stesso tempo sono diverse una dall’altra, perché sono l’esito di processi di accumulazione, di produzione, di crescita economica e sociale che si differenziano da un’epoca all’altra. Per esempio rispetto alla crisi del 2007 quella attuale del Coronavirus presenta delle differenze notevoli, essendo soprattutto legata al sistema bancario. Naturalmente investiva anche la dimensione finanziaria, ma erano prima di tutto le banche che avevano accumulato titoli tossici, favorendo un’espansione smisurata -soprattutto negli Stati Uniti- del settore immobiliare, ad esempio attraverso i mutui subprime. La crisi pandemica è invece esplosa sia sul lato della domanda, con l’interruzione della produzione e una riduzione lineare dei redditi, che -allo stesso tempo- su quella dell’offerta, nell’ambito della produzione. Questi due momenti stanno lasciando, o già hanno lasciato, un segno molto pesante, che è lungi dal poter essere superato nei prossimi mesi. Ci sono infatti coloro che prevedono una ripresa in tempi relativamente brevi, che seguirà la drastica flessione dell’attività economica verificatasi in marzo, come si è visto nei mercati finanziari, che si stanno riprendendo in virtù delle politiche monetarie, delle misure di intervento da parte degli stati e in particolare dell’immissione di quantità enormi di liquidità.
Sarà poi cruciale riuscire a capire la profondità di questa crisi nell’economia reale, cioè quanti di coloro che sono stati messi ai margini dell’economia, ad esempio con forme di lavoro ridotto o di cassa integrazione, ritorneranno al lavoro oppure no. Nel frattempo sono infatti già in atto dei processi di razionalizzazione, di digitalizzazione, per aumentare la produttività del lavoro, per riuscire ad arrivare alla ripresa in una posizione di vantaggio rispetto ai concorrenti, con effetti molto problematici sul piano occupazionale, verosimilmente uno degli aspetti sociali più drammatici.»
Cosa significa dal punto di vista dei mercati andare al di là dei nazionalismi?
Christian Marazzi: «La prima cosa evidente di questa crisi, come peraltro di quelle degli ultimi tempi, è la sua dimensione globale. Volendo accettare la narrazione collettiva ufficiale, questa per definizione è una crisi planetaria, partita da un mercato di Wuhan per poi diffondersi in tempi rapidissimi ovunque, e continua ad avere questa dimensione perché i focolai si spostano su scala globale. Anche le misure per far fronte a questa crisi sono, se non globali, perlomeno continentali. In Europa è evidente che non si può pensare a una ripresa in termini solo nazionali o sovrani. In seguito a lunghi dibattiti in ambito internazionale, in molti casi anche molto duri e controversi, si è arrivati ad un accordo, un consenso che rappresenta anche una svolta storica per l’Europa, perché finalmente si cerca di affrontare la crisi da un punto di vista collettivo, con l’emissione di titoli obbligazionari e la conseguente mutualizzazione del debito. Questo accordo permette una raccolta di capitali che comporteranno da un lato un indebitamento europeo, però dall’altro anche l’erogazione di forme di aiuto sia sotto forma di prestiti che di sussidi ai singoli paesi sulla base della gravità della loro crisi. Possiamo parlare di dimensione europea sia da un punto di vista della situazione e del vissuto di tutti i paesi che fanno parte dell’Europa, che nell’ottica delle misure che sono state concordate per questa che è una crisi che, lasciata ai singoli stati o paesi membri, è irrisolvibile, perché è molto pesante e drammatica. In termini strettamente pragmatici e al di là dell’ideologia, possiamo affermare che solo a livello europeo è possibile pianificare un processo di ripresa economica.»
Come possiamo descrivere la natura delle future forme di potere economico?
Christian Marazzi: «In un articolo pubblicato a marzo suThe Economist è stata formulata l’espressione “coronopticon”, che fa riferimento a un panottico legato al Coronavirus, ovviamente dal punto di vista della società della sorveglianza, che era stata studiata molto a fondo da Shoshana Zuboff nel suo libro del 2019 Il capitalismo della sorveglianza, con riferimento alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, come quelle impiegate nell’ambito di Google, Facebook o Amazon. Come è noto questi gruppi detengono oggi un potere smisurato, oggetto oggi di forti critiche e attacchi da parte delle autorità antitrust, che vedono questa supremazia come nefasta, anche solo strettamente dal punto di vista economico, perché inibisce la concorrenza, le piccole-medie imprese e per certi versi anche l’innovazione. C’è infatti una continuità tra capitalismo della sorveglianza strettamente legato al web, che appunto vede in ogni nostro oggetto o comportamento un surplus di informazione capitalizzabile, sia in termini di commercializzazione che di spazi pubblicitari, e queste nuove forme di controllo definite “coronopticon”, perché la necessità di rintracciare e ricostruire i percorsi dei contagi implica un ulteriore passo in avanti in questa logica del controllo.
Tutto questo ha origine anche nella svolta linguistica dell’economia, nel momento in cui, prima ancora dello sviluppo delle tecnologie digitali, si è incominciato a lavorare comunicando, ovvero quando la comunicazione è diventata un vero e proprio fattore di produzione. Lavorare comunicando, a maggior ragione quando i computer sono diventati l’infrastruttura di queste interazioni per cui si lavora in sincrono, in più parti del mondo e all’interno di ciascuna unità di produzione, significa respirare con il mercato.
Il ruolo della comunicazione e dell’informazione che è alla base della svolta post-fordista è quello di permettere di lavorare just-in-time, respirando con il mercato, rispondendo così alle sollecitazioni della domanda in tempo reale. Non si produce più con lo scopo di accumulare scorte che poi saranno vendute in funzione della domanda, come accadeva in epoca fordista, ma in funzione di quanto richiesto dal mercato in tempo reale. Questa produzione just-in-time costituisce uno dei problemi principali che sono stati evidenziati dalla crisi del Coronavirus, perché nel momento in cui c’è stato bisogno di mascherine, di respiratori o di altra strumentazione sanitaria, questa semplicemente non era disponibile. Si tratta di un ulteriore svelamento della fragilità di un capitalismo che si è espanso in modo prepotente negli ultimi decenni proprio risparmiando sullo spazio, sui magazzini e sulle scorte, ma che poi, confrontato con una crisi pandemica, ha dimostrato tutte le sue problematiche. Però questo produrre attraverso una funzionalizzazione, una strumentalizzazione del linguaggio è sicuramente qualcosa che da una parte contrassegna e caratterizza questo nuovo capitalismo, dall’altra è alla base del suo stesso superamento.
Assistiamo ad esempio ad una notevole diffusione delle nuove forme di lavoro da remoto, che costituisce una delle sfide principali poste dalla situazione attuale. Questo cambiamento delle modalità lavorative comporta senza dubbio dei vantaggi, come ad esempio la riduzione della mobilità, ma anche dei problemi, che ancora una volta rimandano alla questione del linguaggio e della comunicazione.
Quando il linguaggio diventa un fattore di produzione fondamentale si determina un indebolimento della distinzione tra lavoro e vita. Il linguaggio è infatti uno strumento di lavoro che ci accompagna in ogni momento perché investe la nostra dimensione corporea, nel nostro tempo libero, nelle nostre case, nei rapporti affettivi, nell’intimità.
Oggi il lavorare comunicando è addirittura potenziato nella sua forma in remoto, evidenziando nella stessa scelta lessicale ulteriori problematiche potenziali, autodefinendosi “smart”, come se tutte le forme di lavoro fisico fossero invece meno intelligenti. Il rischio maggiore è che, semanticamente, da una modalità operativa si passi a una discriminazione, che si aggiungerebbe a quelle di genere, legate alla gerarchia, alle forme di precarietà, anch’essa da mettere in relazione al capitalismo post-fordista.
Le nuove forme di potere si alimentano quindi sempre di più di una comunicazione a più direzioni, anche nel senso più classico del termine, come è emerso ad esempio in relazione alla divulgazione dei dati scientifici in questo periodo. Il potere stesso sta subendo una torsione verso la necessità di un uso sempre più intelligente di forme di sapere che permettono di governare la società. Il dibattito sul rapporto tra crisi, misure sanitarie e potere è per questo motivo molto complesso, ed è quindi sbagliato sbilanciarsi concentrandosi eccessivamente su uno di questi aspetti. Sarebbe forse più opportuno trovare un equilibrio, perché non si può gestire una società attraversata da un virus senza una serie di misure che hanno il loro risvolto nell’ambito del controllo e della sorveglianza, quindi dovremo abituarci a muoverci su questo crinale.»
Come potrebbe influire questa crisi sulle politiche fiscali e di spesa pubblica?
Christian Marazzi: «Uno dei primi effetti di questa crisi è stato l’aumento della spesa pubblica per far fronte all’emergenza sanitaria e alla crisi del lavoro, con queste misure di lavoro ridotto, di cassa integrazione con i crediti agevolati alle imprese. Si tratta di misure che continuano ad essere prorogate, perché una delle caratteristiche di questa crisi è l’aleatorietà, l’impossibilità di prevederne la durata. Si sta inoltre spostando anche sul piano geografico e geopolitico, ad esempio in Brasile, nell’America del Sud e nel Nord America, quindi queste misure di spesa pubblica sono destinate ad aumentare, dopo dieci anni di politiche di austerità che certo non hanno aiutato a far fronte al momento giusto alla crisi sanitaria, con tagli anche nel settore sanitario.
Questo aumento della spesa e degli investimenti pubblici indubbiamente genera un aumento spaventoso dei debiti. Anche per questo, solo le banche centrali possono far fronte a questo aumento della spesa pubblica. Se lasciasse il compito, come è stato fatto in passato, ai soli mercati finanziari, ci sarebbe una lotta tra chi riesce ad attirare i capitali e chi no, lo Spread sarebbe difficilmente controllabile.
Anche dopo la crisi del 2007 le banche centrali, con le politiche cosiddette del “Quantitative Easing”, cioè questi acquisti di titoli pubblici da parte delle banche centrali, avevano messo in atto misure volte a compensare le politiche austeritarie di quel periodo storico, cercando di evitare la stagnazione e la compressione della domanda. Tuttavia, molto spesso questa liquidità, invece di sostenere l’economia reale, è andata a finire sui mercati finanziari, gonfiandoli e aggravando sensibilmente le disuguaglianze, perché ovviamente da questa inflazione finanziaria hanno tratto beneficio soggetti che potevano investire, o i detentori del credito o del debito altrui.
Oggi potremmo avere esiti analoghi, se non peggiori, in seguito all’aumento potenziato delle politiche di Quantitative Easing indotto dall’aumento dei titoli pubblici. Se tutto questo è necessario -e probabilmente inevitabile- per cercare di trovare dei sentieri di uscita dalla crisi, bisogna anche tenere conto dell’aggravarsi delle disuguaglianze e delle relative tensioni sociali. Nel recente passato, le tensioni che hanno dato nuovo vigore alle forze populiste e sovraniste avevano a che fare con gli effetti nefasti della globalizzazione, come la perdita di lavoro o di potere d’acquisto degli ultimi vent’anni.
Queste politiche monetarie rischiano quindi di accrescere le disuguaglianze, anche attraverso questa garanzia esplicita, comunicata attraverso enunciati performativi dai vari presidenti delle banche centrali, che sono ormai disposte a comprare anche titoli tossici pur di evitare l’innesco di una crisi sistemica o finanziaria.
L’aumento delle disuguaglianze genera tensioni sociali e rivolte che potremmo definire post-populiste, attraverso fenomeni moltitudinari e trasversali che esplodono, pur partendo da eventi contingenti specifici, dando sfogo a una tensione, una rabbia, una frustrazione accumulata trasversalmente dalla società.
Come valuta oggi la capacità dell’indagine economica di anticipare gli scenari futuri?
Christian Marazzi: «Questa crisi è legata a un virus che ha avuto un effetto dirompente, senza precedenti, essendo contemporaneamente una sorta di istante, come un fotogramma, ma un istante che dura, che emana una luce che si proietta nel tempo, nel suo divenire, che in quanto tale è un evento che ci prepara a un prossimo evento, a un prossimo istante che a sua volta durerà.
Siamo in qualche modo spiazzati all’interno di questa dimensione temporale che è fatta di istanti, di presenti, di qui e ora, per certi versi anche nel senso di Walter Benjamin, cioè del tempo-ora rivoluzionario, perché siamo ogni volta confrontati con una prospettiva di una rivoluzione, non nel senso leninista del termine o illuministico, ma nel senso di uno stravolgimento dei dati di fatto. Dei qui-ora che chiama in causa diverse ipotesi di scenari futuri, ma che si configura allo stesso tempo come un istante-che-dura e che definisce un tempo in termini di continuità.
La sensazione è che le cose siano ferme, anche dal punto di vista linguistico e delle evoluzioni lessicali, ad esempio a proposito del “ritorno alla normalità”, proprio quella che ha condotto l’umanità in direzione di un’anomalia selvaggia. Ciò che stupisce è la resistenza al cambiamento di alcuni comportamenti, unita all’impossibilità di sedimentazione di atteggiamenti solidali scaturiti in una situazione di emergenza.
Qualcosa di analogo accade nell’ambito dei mercati finanziari, dove i comportamenti individuali sono molte volte schiacciati dai comportamenti mimetici per via del nostro deficit strutturale di informazioni, di “mancanza d’essere”, come diceva René Girard, per cui è sempre necessario guardare all’altro, per essere pianamente nella dimensione collettiva della società. Anche dal punto di vista dei mercati finanziari, dove i titoli devono avere una validazione collettiva per poter essere rivenduti, le persone sono schiave della logica della “mancanza d’essere”, che investe la dimensione individuale favorendo lo sviluppo di comportamenti mimetici, che rendono gli altri anche dei nostri concorrenti. Facendo le stesse scelte, prevarrà l’individuo che ha più potere nel trarre vantaggio dalle logiche di imitazione, concorrenza e investimento sugli stessi titoli.
Bisognerebbe trovare forme alternative di compensazione a questo deficit strutturale, facendo in modo che l’imitazione non implichi necessariamente una rivalità, ma un’alleanza nella ricerca di pienezza di vita, che deve essere certo materialmente definita, altrimenti comporterebbe una sorta di emarginazione, e deve permettere di essere dentro la società a pieno.»
In riferimento al valore oppositivo insito nel gioco di parole “debt/depth”, come possiamo applicare la categoria di profondità, estranea agli standard grafici di rappresentazione degli andamenti economici, in relazione alle nuove forme di capitalismo e al loro sviluppo capillare che investe la dimensione corporea delle persone?
Christian Marazzi: «Nell’analisi delle politiche monetarie ultra-espansive della crisi pandemica siamo confrontati con il dilemma posto da Nietzsche nella sua Genealogia della morale (1887) a proposito dell’origine del denaro, o meglio del debito, che è il modo in cui il denaro entra in circolazione. Quando Nietzsche spiega l’origine della colpa, utilizza infatti la parola tedesca “Schuld” per dimostrare il nesso molto stretto tra colpa e debito, un rapporto così intimo da autorizzare i forti, cioè i creditori, a infliggere le peggiori pene ai deboli, ossia i debitori.
In alcuni casi, e si pensi alla Grecia, le politiche austeritarie perseguite dalla troika anche in virtù di questa associazione semantica hanno avuto effetti umanamente devastanti.
Questa emanazione sterminata di liquidità è forse un’occasione per ridefinire il concetto di debito, affrancandolo dall’idea di colpa. Sui mercati finanziari si parla di moral hazard quando un soggetto, esentato dalle eventuali conseguenze economiche negative di un rischio, si comporta in modo diverso da come farebbe se invece dovesse subirle.
Tuttavia, questa messa in discussione del nesso tra debito e colpa è resa più difficile dall’idea molto diffusa secondo la quale l’individuo che non guadagna è in colpa, dal momento che questa logica è diffusa capillarmente ed è difficilmente sradicabile.
A questo proposito, la crisi pandemica ha rilanciato la questione di un reddito di cittadinanza incondizionato, perché fino ad adesso ciò che abbiamo sperimentato in Italia è più simile a forme di sussidi di disoccupazione vincolati a delle condizionalità, che rimandano ancora una volta a un senso di colpa.
Per quanto riguarda la questione del debito e della profondità, la superficie è stata una delle metafore chiave del post-fordismo. Anche la tradizione filosofica europea più recente ha considerato l’attraversamento in superficie una modalità alternativa dell’essere profondi, ma in molti casi, attraverso un processo di volgarizzazione, l’idea di superficie ha prodotto una serie di disvalori, rendendo l’opportunismo, il cinismo e la paura delle vere e proprie competenze professionali.
L’individuo opportunista riesce infatti ad avere un rapporto più immediato con l’opportunità, indipendentemente dal prezzo da pagare in termini etici, mentre il cinico è colui che passa indifferentemente da un sistema di regole all’altro, al di là dei vincoli imposti da una dimensione morale. In entrambi i casi queste dinamiche possono essere descritte in termini di un attraversamento in superficie che non ammette ostacoli inerenti alla dimensione della profondità. Il terzo disvalore, ovvero la paura, è quella tonalità emotiva che permette di tenere insieme elementi che sarebbero altrimenti incompatibili, come la negazione dei valori di solidarietà e l’efficacia in ambito lavorativo.
All’opposto, la profondità implica un riferimento al corpo dell’individuo, in particolar modo grazie alla centralità per questa crisi di un virus che lo attacca direttamente, penetrando all’interno e determinando un atteggiamento introspettivo. Diventa quindi centrale la necessità di riconfigurare le regole del comportamento dell’interazione tra i corpi, mettendo in evidenza la problematica di ridefinire l’idea di corpo collettivo nell’attualità, oltre che la sua possibilità. Non c’è niente di più profondo del proprio corpo, le cui perversioni ne determinano i comportamenti, e il virus è l’esemplificazione di un comportamento collettivo globale che ha stressato l’ambiente, perché malato è il nostro comportamento, analizzato in profondità.